Primo: dai dati a disposizione, il «tasso di copertura della contrattazione collettiva si avvicina al 100%»; una percentuale di gran lunga superiore all’80% (parametro indicato dalla direttiva Ue sul salario minino). Di qui, «la piena conformità dell’Italia ai due principali vincoli stabiliti dalla direttiva europea, e cioè l’assenza di obblighi di introdurre un piano di azione a sostegno della contrattazione collettiva ovvero una tariffa di legge». Secondo: sempre dai dati disponibili «è noto che il Ccnl è applicato al 95% dei lavoratori dipendenti italiani», pari a oltre 13,8 milioni di persone. C’è poi un 4% appartenente al lavoro pubblico (usano il codice CPUB senza specificare il Ccnl). Pertanto non si conosce il contratto dell’1% del privato, diverso da agricoltura e lavoro domestico (qui pesano però anche i tempi un po’ lunghi dovuti al processo di inserimento dei nuovi codici nel flusso Uniemens).
La contrattazione collettiva supera le soglie retributive orarie
Terzo: se si volesse fare un confronto tra tariffe contrattuali e una ipotetica tariffa legale i parametri suggeriti dalla direttiva Ue portano a valorizzare il 50% del salario medio e il 60% del salario mediano. Ebbene, l’Istat stima in 7,10 euro il primo, e in 6,85 euro il secondo. Ecco perché, «rispetto a questi indicatori è pertanto possibile affermare, anche in assenza di condivisione sui criteri di calcolo delle voci retributive che concorrono a definire il salario minimo adeguato, che nel complesso, pur con non trascurabili eccezioni, il sistema di contrattazione collettiva di livello nazionale di categoria supera più o meno ampiamente dette soglie retributive orarie».
Voto contrario della Cgil
Sono questi i tre passaggi chiave contenuti nel documento (oltre 20 pagine) sugli esiti della prima fase istruttoria tecnica su lavoro povero e salario minino, approvato dalla commissione dell’Informazione, con il solo voto contrario della Cgil (la Uil si è astenuta), e illustrato ieri all’assemblea del Cnel, presieduta dall’economista Renato Brunetta (lo scorso agosto la premier, Giorgia Meloni, ha affidato al Cnel l’incarico di redigere, in 60 giorni, analisi e proposte).
Povertà lavorativa oltre il salario
Il paper di analisi (per le proposte occorre aspettare ancora qualche giorno) parte da una premessa molto chiara, vale a dire che la povertà lavorativa è un fenomeno che va oltre il salario, e riguarda « i tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno), la composizione familiare (e in particolare quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo) e l’azione redistributiva dello Stato».
Il tema dei contratti “pirata”
Certo, l’archivio dei contratti del Cnel segnala la criticità del fenomeno dei ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi; e c’è poi il tema dei contratti cosiddetti “pirata”. E anche qui si forniscono i dati precisi: le categorie che aderiscono a Cgil, Cisl, Uil firmano 211 contratti collettivi nazionali di lavoro, che coprono 13.364.336 lavoratori dipendenti del settore privato (sempre con eccezione di agricoltura e lavoro domestico); gli stessi rappresentano il 96,5% dei dipendenti dei quali si conosce il contratto applicato (o il 92% del totale dei dipendenti tracciati nel flusso Uniemens). I sindacati non rappresentati al Cnel al momento attuale firmano 353 Ccnl che coprono 54.220 lavoratori dipendenti, pari allo 0,4% dei lavoratori di cui è noto il Ccnl applicato. Altro dato da tenere in considerazione è quello delle giornate medie retribuite che, in Italia, sono 235 (Istat). Nei servizi di alloggio e di ristorazione le giornate medie di lavoro sono solo 143 (difficile qui capire il peso delle giornate “in nero”).