«L’atteggiamento dei manager ha un ruolo cruciale nel determinare sia l’adozione di pratiche di smart working sia il loro effettivo utilizzo da parte dei lavoratori – dice Corso -. Il 53% delle grandi imprese ritiene che i propri manager siano dei promotori di tali iniziative mettendole in pratica, se possibile, e stimolando anche i propri collaboratori a farlo. In questo caso si può parlare di un approccio strategico, in cui le persone hanno modificato il loro modo di lavorare secondo una logica per obiettivi».
Nel settore pubblico e nelle Pmi questo atteggiamento positivo è meno diffuso: lo si trova rispettivamente nel 35% e nel 27% delle organizzazioni. Oltre un terzo delle Pmi dichiara che i propri responsabili hanno un atteggiamento scettico rispetto allo smart working, permettendo alle persone di lavorare da remoto solo in presenza di particolari necessità, come quelle di natura personale, o addirittura non incentivandone l’applicazione, con un approccio che potremmo definire estemporaneo, da usare a fronte di determinate esigenze. C’è infine un approccio tattico, con un utilizzo sistematico del lavoro da remoto, ma senza che si sia compiuta una vera e propria trasformazione.
Il mercato del lavoro
In tutti i casi c’è un’evoluzione dei modelli che andrebbe vista in un contesto un po’ più allargato, come quello del nostro mercato del lavoro dove stiamo assistendo a una vera e propria crisi dell’offerta di lavoro, dovuta all’inverno demografico: nel 2030 Adapt stima che ci saranno 730mila lavoratori in meno, nel 2040 3,1 milioni, nel 2050 4,6 milioni. Ecco allora che diventa importante «mettere in campo tutti gli strumenti capaci di rendere il lavoro attrattivo e inclusivo, per le donne, le madri, i padri, i caregiver, per una fase molto lunga dato che la sostenibilità del sistema previdenziale allungherà la vita lavorativa di tutti – interpreta Corso -. Questo significherà sempre più pensare a modelli organizzativi con una chiara visione di come si favorisce la produttività e la motivazione delle persone, del work life balance, della flessibilità, dell’inclusione, del benessere al lavoro. Più che tornare a modelli del passato, spesso superati, bisogna pensare a come fare evolvere, anche grazie alle tecnologie, quelli che abbiamo perché la crescita economica ci sarà nella misura in cui avremo più persone che lavorano e producono».
L’indagine tra i lavoratori
Dal picco pandemico ad oggi, il numero degli smart worker si è praticamente dimezzato. Se nel 2020 ci sono state 6 milioni e 590mila persone che hanno lavorato da remoto, oggi il loro numero è sceso a 3 milioni e 555mila. Questo vuol dire che oltre tre milioni sono rientrati in ufficio, soprattutto nella Pa e nelle piccole e medie imprese, mentre nelle grandi realtà i modelli di lavoro agile si sono via via consolidati. Complici anche le scelte fatte da alcune multinazionali, come Amazon, che hanno innescato un acceso dibattito tra i lavoratori, resta aperta la domanda su quale sarà il futuro di questo strumento. L’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano ha sondato un gruppo di circa 1.500 lavoratori, dipendenti di organizzazioni con oltre 10 addetti, rappresentativo della forza lavoro dipendente italiana.
La reazione negativa al rientro 5 giorni su 5
Tra questi 198 lavorano per una parte del tempo da remoto. Se venisse chiesto loro di tornare completamente in presenza, secondo quanto spiega la direttrice dell’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano, Fiorella Crespi, «il 73% reagirebbe in modo avverso. In particolare, il 27% metterebbe in discussione il fatto di continuare a lavorare per l’organizzazione, valutando o mettendosi a ricercare un altro impiego, mentre il 46% si adopererebbe per far cambiare la decisione ritenuta svantaggiosa». Mettere in discussione però non vuol dire andarsene, potrebbe anche voler dire semplicemente quiet quitting, ossia fare il minimo indispensabile. Per i lavoratori, «comunque, per cercare di compensare almeno in parte la mancata possibilità di lavorare da remoto, l’organizzazione dovrebbe offrire loro una maggiore flessibilità oraria o un aumento di retribuzione mediamente pari al 20%», dice Crespi.